Sono della generazione che ha visto le prime fotocamere sui cellulari.
No, non ho sbagliato, ho proprio scritto “cellulari”, gli smartphone sono arrivati dopo.
All’inizio, per fare uno zoom e vedere le facce nelle foto di gruppo, dovevi scaricare la foto su un computer e scoprire in quale delle 7 o 8 immagini NON c’erano occhi chiusi, rossi o espressioni da ebete, sfocate, distratte, ecc… Oppure se avevi una buona vista capivi già dal display del telefonino che cosa poteva non andare bene.
Il touch screen e gli schermi ad alta definizione hanno cambiato le cose. Lo zoom in e zoom out sono diventati gesture così naturali che spesso provo a farle anche su carta.
Poi mi guardo in giro per vedere se c’è qualcuno che sghignazza. E di solito c’è.
In queste ultime settimane ho usato l’idea di zoom in e zoom out perché mi sembra una buona metafora del lavoro che si fa con lo storytelling in azienda.
Parto sempre con una richiesta: “Raccontate una storia che descriva al meglio il vostro lavoro” per poi passare a quelle di prodotto, servizio, cliente, collega, brand, ecc…
La risposta, di solito, è: “Il nostro è un lavoro articolato, complesso, difficile da racchiudere in una sola storia…”. Più che giusto, esattamente come servizi e prodotti sono difficilmente riconducibili a un singolo racconto, soprattutto se hanno subito “evoluzioni per soddisfare i bisogni di clienti sempre più esigenti” (cit.).
Figuriamoci quando la richiesta di racconto, ricade su IL cliente, sulla famosa buyer persona o IL collega. Esseri umani che hanno sfaccettature che non si possono racchiudere in un solo racconto.
Bene, d’accordo. È una ricchezza che non deve limitare.
Ma credo si possa partire da lì, da quel livello di zoom – una storia specifica, particolare. Per poi cercarne altre, in modo che viste nel loro insieme, ci possano aiutare a trovare i denominatori comuni.
Le storie sono storie, hanno bisogno di particolarità, precisione, devono essere raccontate con lo zoom a livello di dettaglio alto. La mentalità narrativa della ricerca è qualcosa di documentaristico, a cui servono tempo e cura delle specifiche.
Sono convinto che non si possano capire i valori di un brand partendo dai valori stessi, così pure quelli di un prodotto, un servizio. La ragione per innamorarsi e acquistare non è mai così unica e semplice.
Credo si possano trovare nelle persone: nelle storie dei fondatori, collaboratori, fornitori, clienti.
A maggior ragione quando dobbiamo comunicarli, è necessario declinarli nelle storie, nei case history, nella azioni di marketing e commerciali.
Lo Zoom In serve per cercare e mettere da parte il set di storie di valore sui clienti, i casi di successo specifici, i racconti di origine e fondazione, la quotidianità degli uffici e tra colleghi.
Lo Zoom Out va a definire i valori denominatore comune, che danno senso a ogni racconto messo da parte e vissuto dentro e fuori dall’impresa.
Zoom In di nuovo per raccontare storie di persone, prodotto e servizio che incarnano i valori di azienda. Senza tralasciare le varie azioni di marca che a questo punto saranno specchio proprio di quei valori.
Facile? No, ma se serve una mano, fate uno squillo. 😉